Quando ci troviamo di fronte allo scaffale dei vini al supermercato, siamo spesso attratti da etichette che evocano immagini bucoliche: vigneti baciati dal sole, cantine secolari, metodi tramandati di generazione in generazione. Parole come “naturale”, “artigianale” o “tradizionale” catturano immediatamente la nostra attenzione, facendoci credere di portare a casa un prodotto genuino, privo di artifici industriali. Ma quanto di tutto questo corrisponde alla realtà ? La verità è che dietro molte di queste etichette si nasconde una strategia di marketing sofisticata, progettata per farci abbassare la guardia critica.
Il fascino ingannevole delle parole non regolamentate
A differenza del termine “biologico”, che in Europa è strettamente regolamentato e richiede certificazioni precise da organismi accreditati, termini come “naturale”, “artigianale” o “genuino” non hanno alcun valore legale nel settore vitivinicolo. Chiunque può apporli su un’etichetta senza dover rispettare alcun disciplinare o sottoporsi a controlli. Questo vuoto normativo rappresenta un’autostrada per operazioni di marketing che puntano esclusivamente sull’emotività del consumatore, senza offrire garanzie concrete sulla qualità o sul metodo di produzione.
Il problema si aggrava quando queste parole vengono accompagnate da una grafica che richiama la tradizione: caratteri che imitano la scrittura a mano, illustrazioni di cascine, colori terrosi, carte che sembrano invecchiate. Tutti elementi studiati per trasmettere un messaggio di autenticità che potrebbe non avere alcun fondamento nella realtà produttiva.
La questione nascosta dei solfiti e degli additivi
Uno degli aspetti più critici riguarda la comunicazione sulla presenza di solfiti. Per legge, quando la concentrazione supera i 10 mg/litro, deve comparire la dicitura “contiene solfiti” sull’etichetta. Tuttavia, questa informazione viene spesso relegata in caratteri minuscoli sul retro della bottiglia, mentre sul fronte campeggia un design rustico che suggerisce purezza assoluta. Il contrasto tra la comunicazione visiva e la realtà compositiva del prodotto crea una dissonanza informativa che disorienta il consumatore.
Ma i solfiti non sono gli unici additivi utilizzati nella produzione vinicola. La normativa europea consente l’impiego di oltre settanta sostanze diverse: stabilizzanti, chiarificanti, acidificanti, enzimi. Nessuna di queste deve essere obbligatoriamente dichiarata in etichetta, a eccezione degli allergeni. Un vino può quindi presentarsi con un’immagine di estrema naturalezza pur contenendo numerosi coadiuvanti tecnologici che il consumatore ignora completamente.
Come il termine “biologico” può ingannare
Anche quando ci troviamo di fronte a vini effettivamente certificati biologici, occorre mantenere un approccio critico. La certificazione biologica riguarda principalmente la coltivazione delle uve, garantendo l’assenza di pesticidi sintetici e fertilizzanti chimici in vigna. Tuttavia, nella fase di vinificazione sono comunque ammessi diversi additivi, seppur in quantità ridotte rispetto alla produzione convenzionale. I vini biologici possono contenere solfiti fino a 100 mg/l per i rossi e quantità leggermente superiori per i bianchi. Un vino biologico non è automaticamente un vino privo di interventi enologici o di solfiti aggiunti.
Alcune etichette sfruttano questa ambiguità posizionando il marchio della certificazione biologica in modo prominente, lasciando che il consumatore interpreti questo come garanzia di un prodotto completamente “pulito”, cosa che non corrisponde necessariamente alla realtà .

Gli elementi grafici che manipolano la percezione
L’industria del vino ha perfezionato l’arte di utilizzare il design come strumento persuasivo. Le etichette che vogliono comunicare genuinità ricorrono a illustrazioni che riproducono tecniche di stampa antiche, anche quando il vino proviene da produzioni industriali su larga scala. I riferimenti geografici vaghi evocano territori rinomati senza essere vincolati a denominazioni d’origine controllate, mentre le narrazioni sulla storia della cantina potrebbero essere pura fiction creativa. Le texture della carta e le finiture simulano materiali naturali per un prodotto che di naturale ha ben poco.
Strumenti di difesa per il consumatore consapevole
Di fronte a questa giungla comunicativa, il consumatore non è del tutto indifeso. Alcune strategie possono aiutare a orientarsi con maggiore lucidità . Prima di tutto, imparare a distinguere tra affermazioni certificate e semplici suggestioni. Solo i termini che fanno riferimento a denominazioni protette come DOP e IGP, o a certificazioni riconosciute come il biologico e il biodinamico certificato da enti come Demeter, hanno un valore verificabile.
Leggere attentamente il retro dell’etichetta, dove si trovano le informazioni obbligatorie per legge, permette di scoprire aspetti che il fronte della bottiglia preferisce non evidenziare. La presenza di solfiti, la gradazione alcolica effettiva, il paese di imbottigliamento che potrebbe essere diverso da quello di produzione: tutti elementi che costruiscono un quadro più realistico del prodotto.
Diffidare delle parole vuote. Quando un’etichetta abbonda di aggettivi evocativi ma manca di certificazioni concrete, è probabile che si tratti di una strategia per mascherare l’assenza di caratteristiche distintive reali. Un vino davvero speciale tende a far parlare le proprie credenziali ufficiali piuttosto che affidarsi esclusivamente a suggestioni emotive.
Il valore dell’informazione indipendente
Affidarsi a fonti di informazione indipendenti rappresenta uno degli strumenti più efficaci. Guide enologiche autorevoli, recensioni di esperti non legati a interessi commerciali, associazioni di consumatori: esistono numerose risorse che possono aiutare a valutare un vino al di là della sua confezione. Anche il rapporto diretto con enoteche specializzate, dove il personale può fornire informazioni dettagliate sulle pratiche produttive, costituisce un’alternativa valida all’acquisto basato unicamente sull’impressione visiva al supermercato.
L’educazione del proprio palato rimane comunque l’arma migliore. Sperimentare, confrontare, sviluppare la capacità di riconoscere la qualità attraverso l’assaggio piuttosto che attraverso il packaging: questo percorso richiede tempo ma restituisce autonomia nelle scelte. Un vino che promette naturalezza estrema ma lascia in bocca sentori chimici o presenta difetti evidenti sta semplicemente mentendo attraverso la sua etichetta.
La consapevolezza che il mercato del vino, come qualsiasi altro settore, utilizza strategie di marketing sofisticate non deve generare cinismo ma piuttosto stimolare un approccio più informato. Pretendere trasparenza, premiare i produttori che comunicano in modo onesto, segnalare alle autorità competenti i casi di pubblicità ingannevole: sono azioni che, sommate, possono contribuire a un mercato più equo. Ogni volta che scegliamo una bottiglia, ricordiamoci che dietro quell’etichetta rustica potrebbe esserci una realtà industriale che preferisce rimanere nascosta.
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